Se davvero la vita e il corpo costituiscono la posta in gioco della politica contemporanea così come noi riteniamo , solo una radicale e, per certi versi, simultanea decostruzione della categoria di ‘persona’ e di ‘cosa’ è in grado di offrire l’esempio più lampante dei processi riassumibili in quel concetto di
biopolitica, che, nel suo doppio, contrastante versante o d’inclusione del bios dentro logiche e dispositivi di dominio-potere, o di “infinita apertura” della
vita, dal momento che il campo di “normatività” che affiora dalla ‘soglia’ che lega “l’invariante biologico” alla dimensione
tecnico-artificiale della stessa è in grado di spostare in avanti la “giuntura
organica” che connota il vivente, sì da espandere/trasformare la “natura umana” , costituisce il cuore del conflitto politico del nostro tempo. Peraltro, la fecondità ermeneutica di tale operazione decostruttiva è in grado di far emergere come, sia le “cose” sia le “persone” lungo il tragitto che interseca e sovrappone, nella storia della cultura umana, il peso della filosofia greca, del diritto romano e della religione cristiana , più che essere scandite e definite da quell’apparente spartiacque che li espone e li articola nella loro reciproca opposizione (chi è persona non può essere una ‘cosa’; né mai le cose possono assurgere al ‘valore’ di persona), sono ancora inscritte in una sorta di “inclusione escludente”, o di “esclusione includente” vale a dire, in un sistema di dispositivi di “sapere/potere” che, come un chiasma, hanno intrecciato lungo i secoli le sorti delle ‘persone’ e delle ‘cose’, facendoli slittare e rovesciare nel loro opposto. Ed è solo attraverso una presa di coscienza della necessità di dover operare una critica verso la “macchina teologico-politica” dell’Occidente che potranno dispiegarsi le condizioni perché un’integrale
biopolitica affermativa, possa liberare le “forme di vita” da ogni sovrastante ed ‘esterno’ potere pervasivo. Non a caso, è proprio da questo sguardo genealogico, che sa indagare la paradossale circolarità che ha legato ora le ‘persone’ ora le ‘cose’ le une nel rovescio delle altre , che lo statuto del
corpo, la valenza dei ‘corpi’ i corpi umani, i corpi sociali, i corpi politici possono affiorare nella loro inesauribile domanda (ed esperienza) di libertà, a conferma che la
potenza infinita della vita non può che sporgere continuamente, reclamando una politica che sia in grado di corrispondere ad essa.
A grandi linee, sono queste le coordinate filosofico-politiche che Roberto Esposito consegna nel suo denso saggio,
Le persone e le cose, da poco edito da Einaudi. Attraverso un denso e convincente percorso genealogico, l’autore, offre una risistemazione concettuale sia della categoria di ‘persona’ che di ‘cosa’, per approdare alla valorizzazione e centralità ermeneutica della ‘corporeità’ che lungo i sentieri che, rovesciando le aporie che legano Cartesio a Kant, da Vico e Spinoza giungono dapprima a Nietzsche, poi a Foucault, a Deleuze, a Jean-Luc Nancy, sino a Peter Sloterdijk e alla sua antropotecnica aiuta a cogliere il «dispositivo combinato di personalizzazione e depersonalizzazione» che ha fatto sì che, nel corso dei secoli, il transito continuo tra persone e cose facesse del ‘corpo’ dell’
uso dei corpi, potremmo dire, parafrasando il titolo di una straordinaria ricerca di Giorgio Agamben la ‘cosa’ a disposizione del soggetto.
Infatti, come è ben noto, pur significando staremmo per dire, pur ‘im-personando’, nel senso di ‘rappresentare’ , il termine
persona, in origine,
maschera, esso, pertanto, rinvia così a quello ‘scarto’ che segna, non già una piena e immediata coincidenza, bensì la distanza, la differenza se si vuole, in una sorta di tramite, di funzione, di
ufficio tra il “vivente umano” e le trame plurali delle sue espressioni d’esistenza. E se la categoria di persona è pur assurta, nella modernità, al rango pieno e indiscusso del potere di
nomina diretta dello “statuto del soggetto”, dell’individuo, del cittadino, ciò non ha affatto significato che
persona e
vivente umano si siano avvitati in una sorta di “fusione totale”, pur se ciò è valso a conferire alla prima un valore
universale, indiscusso e intoccabile. Ne sono prova, da una parte, il fatto incontestabile che l’idea di persona sia giunta, nella filosofia primonovecentesca, a connotare la principale corrente speculativa la fenomenologia , incidendo dentro le componenti sia laiche che cattoliche del pensiero e/o delle scuole filosofiche del tempo, e dall’altra, il fatto che tale categoria, attraverso il personalismo cattolico moderno (con Jacques Maritain, quale massimo e autorevole riferimento si pensi solo alla definizione di persona dallo stesso ‘proposta’ nella stesura della
Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948), abbia connotato essenzialmente la parte
razionale, morale,
spirituale e volontaria del vivente.
Da questo punto di vista, con
Le persone e le cose, Roberto Esposito prosegue, rinnova e rielabora in termini più succinti e più asciutti, ma pur sempre raffinati il quadro ermeneutico fondamentale che egli aveva offerto nel 2007, sempre con Einaudi, con il saggio più ampio,
Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale. Testo che, per la sua ricchezza analitica e argomentativa, fa da ‘sfondo’ teoretico a quest’ultimo, che pur mantiene la sua sobria ed elegante autonomia speculativa centrata, rispetto al primo, su quella emersione del
corpo e della
corporeità, letti nella loro chiave sia fisico-materiale che
analogico-metaforica: basti pensare a quel 5° paragrafo finale del libro, dedicato ai “corpi politici”. Non è un caso che, proprio attraverso una valorizzazione del nesso “corpo-vita”, Esposito riesca a «sciogliere questo nodo metafisico tra cosa e persona», che è riuscito a produrre un reciproco rovesciamento o il medesimo esito dissolutivo per entrambe «al processo di depersonalizzazione delle persone corrisponde quello di derealizzazione delle cose» , oppure l’assunzione delle cose dentro il ‘feticcio’ della loro
forma fantasmagorica il cui culmine finale è espresso dal “capitalismo estremo” e
cultuale, come aveva ben visto Walter Benjamin nel suo penetrante, per certi versi, esoterico frammento postumo sul
Capitalismo come religione.
Così come, infatti, tornando ad Esposito, la stessa categoria e/o dispositivo di
persona (sino alla configurazione di “persona giuridica”) siano serviti a ‘dividere’ il vivente umano in quella
soglia in cui “l’uso del corpo” è relegato nella sua mera
cosalità già nel diritto romano, come noto, dove le persone si dividono in ‘liberi’ e ‘schiavi’ (includendo, qui, anche le mogli, i figli, i debitori insolventi, ecc.) , sino al punto da inaugurare così quella “logica proprietaria” che (ed Esposito sa riassumere, in pagine intense e brillanti, il lungo tragitto che si snoda nella modernità) giungerà, trasformata, sino al “feticismo delle merci” nel capitalismo e nella critica operata da Marx, oppure, su altro versante, in quel “governo dei corpi” che, mentre da una parte vede proclamare la centralità della persona e dei “diritti umani”, connoterà il ’900 come il secolo in cui il
corpo e la
vita diventano la posta in gioco della lotta politica. Non a caso, l’autore legge e inscrive, opportunamente, il nazismo (e per la raffinata prova ermeneutica di questi processi, non possiamo che rimandare ad un altro saggio che Esposito ha offerto nel 2004 con
Bios. Biopolitica e filosofia), quale vettore perverso, patologico e mortifero, attraverso cui la ‘biopolitica’ è stata, nella prima metà del ‘900, capovolta in ‘tanatopolitica’.
Sullo sfondo, il contrasto sull’idea di “natura umana”, o il rapporto tra
tecnica e vita, che aprono dilemmi bioetici e/o ‘biopolitici’ irrisolti, al punto che, come appare sempre più evidente e urgente, «la tecnica biologica dell’impianto e del trapianto, che oggi immette nel corpo dell’individuo frammenti di corpi altrui, o addirittura cose in forma di macchina, è significativa di una trasformazione che travolge
i confini proprietari della persona» (corsivo nostro).
Il che conferma davvero come il corpo sia diventato, e lo diventi sempre più, la posta in gioco di un conflitto estremo che tocca direttamente interessi e dinamiche di carattere giuridico-normative, etiche, teologiche e politiche, al cui interno si giocano i destini sia delle
vite individuali che quelli del
corpo politico, del ‘popolo’. Basti pensare all’emersione sino a poter evocare una sorta di
spinoziano ‘ritorno’ di quella categoria di
moltitudine, stante che i “corpi politici”, esposti alla crisi del
Leviatano moderno e nel
destino di un’indiscutibile e inevitabile “macchina globale” del mondo contemporaneo (che sembra incidere profondamente nello Stato novecentesco, segnandone il
compimento della sua “forma nazionale” il che non vuol dire la
morte/fine definitiva) , evidenziano la perdita di senso sia dell’idea di ‘sovranità’ che delle forme della ‘rappresentanza’ e dell’autoriconoscimento collettivo. Sino a quell’
invadenza del corpo, che già, profeticamente, Guy Debord, a metà degli anni sessanta del secolo scorso, intravvedeva nel suo classico testo,
La società dello spettacolo, a conferma che, come scrive plasticamente Esposito, «la stessa persona del leader come era diversamente accaduto ai capi totalitari e come è inevitabile nella società dello spettacolo non è più separabile dall’esibizione continua del proprio corpo, in una sovrapposizione mai così integrale di dimensione pubblica e dimensione privata».
Al punto che, se possiamo permetterci un ‘volgare’ accostamento analogico (
politicamente, molto attualizzante) e sappiamo di ‘scadere’ un po’, rispetto al valore altamente speculativo del saggio di Esposito, al quale, qui, ci siamo dedicati –, potremmo dire che la schematica contrapposizione tra
Ditta e ‘persona’ del
Leader la prima pensata enfaticamente come
potente ma esclusivo “spazio della rappresentazione”, la seconda solo come una mera deriva
populistica di dinamiche ‘personalistiche’ rasenta uno dei punti più bassi di banalizzazione della
cultura politica novecentesca. Piuttosto, l’ultima citazione con cui qui chiudiamo queste nostre sintetiche riflessioni sul bel saggio di Roberto Esposito, conferma potremmo dire, dentro l’ambito del denso e inesauribile capitolo di “teologia politica” il valore straordinario del gioco svolto dalla
semantica del corpo della persona regale, secondo le intuizioni che Ernst Kantorowicz aveva espresso nel suo classico,
I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale.
Per chiudere, non possiamo non fare riferimento alla centralità che il pensiero e le riflessioni filosofico-politiche di Roberto Esposito sono venuti acquisendo oltre i confini nazionali, nel corso degli ultimi due decenni. Non parliamo soltanto della curiosità, degli interessi e del riconoscimento che la filosofia francese in particolare, e non solo, per i rapporti che hanno legato Esposito a Jacques Derrida, a Jean-Luc Nancy e ad altri ha tributato all’autore qui in questione, bensì alla particolare attenzione speculativa che ambienti della filosofia e del mondo accademico statunitensi hanno dedicato e continuano a dedicare a Roberto Esposito e ad altri studiosi italiani, in seminari di studio e pubblicazioni. A conferma dell’intensa ‘vitalità’ che la filosofia italiana torna a riacquistare, dopo i lunghi decenni di egemonia culturale dei tre vettori di pensiero decisivi in cui si era articolato il ’900 filosofico occidentale la filosofia analitica anglo-americana, l’ermeneutica gadameriana e il filone francese (Foucault, Derrida, Deleuze, Lyotard, Nancy, ecc..), susseguente al declino dello strutturalismo di De Saussure. Anche perché, da Machiavelli a Vico, la centralità dell’orizzonte problematico delle loro domande sul nesso/legame tra
storia,
politica e
vita indubbiamente, il connotato specifico che lega
genealogia e
filosofia attesta il carattere
vivente del “pensiero italiano”.
* Prima pubblicazione: Kasparhauser | Etica, 15 novembre 2014.
Roberto Esposito